A questa riconosce diverse linee di finanziamento come ad esempio: il nuovo programma quadro per la ricerca Horizon 2020 "Europe in a changing world", le call dell'area INSO (social Innovation), l'obiettivo trasversale "Science With and For Society"sempre di H2020 e il programma Employment and Social Innovation (EaSI).
Ma andiamo con ordine. Facciamo prima una sorta di punto sul modo attuale di intendere la "social innovation".
IIn questo periodo storico in cui le
imprese e dell’economia sono messo a “ferro e fuoco” dalla crisi, dove si va
alla ricerca di modelli economici nuovi, fra nuove esperienze, sostenibilità,
resilienza e sharing, si aprono i
cancelli per i più visionari e futuristici. Una nuova sfida. Un campo definito dai
termini “innovazione sociale” che cerca la sua identità.
La ricerca di nuovi percorsi in
grado di ridefinire il modello di “creazione di valore”. Un “mercato” visto e
approcciato in maniera “diversa”, che parte dal basso e che dal basso riceve i
segnali per esistere. Un mercato partecipe, dove il cliente è protagonista
attivo della creazione del prodotto che richiede.
Questo sottende, per le imprese,
la possibilità di una efficace e sostenibile creazione di una nuova idea di
prodotto, servizio, modello: trasformarsi in promotori, attori e protagonisti
di pratiche di Social Innovation.
Partiamo da alcune semplici
domande:
Può un’impresa dare risposta a
bisogni sociali emergenti, presenti e passati, in modo innovativo, creando al
contempo valore (non necessariamente economico) anche per se stessa? Come?
Come può un’impresa, attraverso la
propria “value propostion” collocarsi
come “attore di sostenibilità e miglioramento sociale” del contesto sociale in cui opera utilizzando il proprio business come leva per la creazione di
nuove relazioni, collaborazioni e partnership e per proporre una risposta
efficace (e redditiva) a istanze della collettività, sviluppando il proprio
business?
Immaginiamo, per il domani, alcune
sfide, alle quali in un mondo “globalizzato”, connesso e unico come il nostro,
non ci si potrà sottrarre:
- una emergenza ambientale: un
imminente possibile “disastro” globale (Global Change, Global Warming, perdita
di biodiversità, necessità di cambio del sistema di risorse e quindi necessità
di riprogettare il modello di vita) in un pianeta che a oggi conta 7,3 miliardi
di persone, con squilibri sociali, economici e di accesso a servizi e risorse
completamente differenti. E che non può impedire, ad esempio, ad un miliardo e
300 milioni di cinesi e un miliardo e 100 milioni di indiani contendersi lo
stesso petrolio, la stessa acqua, la stessa aria per mutuare il modello si
sviluppo che l’occidente ha rincorso fino ad oggi. O a un miliardo di Africani,
che non riuscendo a mutuare un modello occidentale nel proprio territorio
(anche a causa delle ingerenze dell’occidente) e subendo inoltre più di altri
gli effetti del cambiamento climatico a migrare in massa verso opportunità di
vita.
- una frattura demografica. Il
vecchio continente, lo sta diventando veramente. Fra i più veloci in questo
cambiamento ci sono l’Italia ed il Veneto. È in atto un aumento della longevità
della vita (positivo) che diventa un problema paragonato a una diminuzione
delle nascite. Realtà che scardina da noi i sistemi (oggi sempre più
inadeguati) di welfare e di società. Inoltre le natalità immigrate superano
quelle nostrane;
- un progressivo declino dell’occidente,
che tradotto in altri termini rappresenta la fine del “dominio” dell’“uomo
bianco” sul mondo.
Oltre a questi temi globali ne
penso due molto più vicini al nostro sistema, senza alcun desiderio di
interpretazione morale:
Il primo: In Italia, ma anche in
altri paesi europei, lo stato sociale è in fase di contrazione. In Italia,
legato molto a logiche assistenzialiste e non imprenditoriali, con il “terso
settore” o il “no – Profit” rispondeva a bisogni dove lo stato non arrivava.
Oggi, anche a causa di una robusta contrazione delle risorse provenienti dalla
PA, soffre la carenza di una estesa capacità imprenditoriale, quella capace di
assicurare sostenibilità alla propria impresa.
Il secondo: la crisi economica,
che ci ha anche edotto sul fatto che non siamo scollegati dai problemi degli
altri, ma anzi in maniera ognuna propria ne subiamo gli effetti, solleva e fa
emergere nuovi bisogni sociali e rafforza, appesantendoli, i vecchi.
Il terzo: il nostro tessuto
produttivo costituito, per la maggior parte, da medie, piccole e micro realtà
imprenditoriali generalmente slegate e contrapposte, non regge la sfida globale
che sposa grandi volumi ad attenzione al singolo e sempre maggiore
personalizzazione. Anche a causa dello smarrimento di una identità di prodotto
e servizio tailored sul bisogno del
singolo cliente, a fronte della produzione di serie, e con un percorso forte di
valore, tipico della cultura no profit, che va recuperato, esteso e migliorato.
Ma crisi, nella lingua cinese è un
ideogramma composto da due simboli, che, separatamente significano “pericolo” e
“opportunità”(figura all'inizio del post)
In questo scenario di nuovi
bisogni, sfide globali e opportunità le imprese (tutte) non possono permettersi
di non sedersi a questo tavolo, non possono permettersi che il know how di cui
sono portatrici sia tagliato fuori da una logica differente, attenta al
percorso, al valore, alle persone. Una logica che rovescia le dinamiche che
fino a ieri reggevano i percorsi di mercato. Oggi e sempre di più inefficaci. Da
questo tema passano le future sfide di un vantaggio competitivo (o meglio, di
un “vantaggio collaborativo”) per le
imprese stesse.
“Social innovation can be defined as the development
and implementation of new ideas (products, services and models) to meet social
needs and create new social relationships or collaborations. It represents new
responses to pressing social demands, which affect the process of social
interactions. It is aimed at improving human well-being. Social innovations are
innovations that are social in both their ends and their means. They are
innovations that are not only good for society but also enhance individuals’
capacity to act.” Da Guide to
Social Innovation 2013 – European Commission
In questo estratto la EC non fa
nessun riferimento esplicito alle “imprese sociali”, di fatto lanciando un
sasso verso il superamento di una distinzione profit / no profit, basata sull’impatto
sociale. Superamento che alcune nazioni hanno già formalizzato (Francia, ad
esempio).
E’ giunto il momento di avviare,
per le imprese, un percorso di raccordo delle dualità che le
caratterizzano (capitale e lavoro, ambiente e salute, economia ed ecologia)
per abbattere un modello capitalistico obsoleto, iniquo e insostenibile e per
ri - costruire un nuovo modello economico, sostenibile allo stesso tempo in
senso sociale, ambientale ed economico.
E proprio in questa ultima
affermazione che passa operativamente il tentativo per le imprese di inserirsi
in tale processo di innovazione: attraverso
azioni che sono allo stesso tempo capaci di produrre economia e miglioramento sociale.
Questo richiede anche il passaggio
da un’ottica di "donazione" tipica di un
certo modo di concepire la CSR, a un’ottica di rete, di ascolto, di co-progettazione,
di condivisione delle azioni e dei fini.
In primis fra produttori e
venditori di servizi e cliente, e, in Italia, anche tra mondo profit e No
profit portatore di istanze e bisogni sociali, in grado di conciliare le
esigenze di attori estremamente diversi tra loro in quanto a profilo culturale,
metodologico e valoriale. La complementarietà delle risorse dei partner offre l’opportunità
di generare soluzioni win win, in cui entrambe le parti perseguono i propri
obiettivi sfruttando i vantaggi della collaborazione e ragionando in termini di
innovazione.
Il presupposto è semplice: l’azienda prospera se il territorio, in cui
opera, prospera (e viceversa). L’intuizione dello Shared Value può essere d’aiuto: mappando la catena del valore di
un’impresa (asset, processi, attività già in essere presso l’impresa) è
possibile identificare le aree ad alta potenzialità di generazione di valore
condiviso, utile all’azienda e al contesto in cui opera.
Si tratta di lasciarsi guidare
dall’efficienza (utilizzando quindi tutti gli asset al massimo delle possibilità),
di aprirsi ad una nuova cultura d’impresa, trasparente e collaborativa, in
grado di trasformare l’impresa in interlocutore credibile in tema di
innovazione sociale.
Identificare e mettere a
disposizione le proprie leve di valore (come il know how, l’infrastruttura, i
sistemi di gestione) a partner in grado di soddisfare bisogni sociali, entrando
in una logica multidirezionale (impresa, partner, stakeholder, società),
reticolare, di network.
Il processo di ricerca e sviluppo
di un’impresa è un utile esempio, per quanto semplificato: abbracciare nell’azienda
una strategia di innovazione sociale, significa trasformare le attività Ricerca e Innovazione Tecnologica da attività tipicamente interne a processi
aperti e informali, che attivano
intelligenza collettiva ed economie collaborative.
Un ulteriore esempio ad alto
potenziale è offerta dall’interazione strutturata e innovativa con i fornitori
che compongono la supply chain, per
rafforzare ad un tempo le attività di impresa, permettendo una crescita
organica dei fornitori stessi, che a loro volta, incrementando la propria
competitività e rilevanza sociale, possono farsi portatori di soluzioni
innovative nei contesti di riferimento.
E ancora, da un altro punto di
vista ad approccio più allargato, la strategia verso l’innovazione sociale si
sposa con la crescita e lo sviluppo di un’idea di Smart Cities, dove le diverse componenti della società, unite da
soluzioni tecnologiche innovative, individuano modelli di sostenibilità all’interno
degli agglomerati cittadini, modelli fatti di relazioni, di servizi innovativi
efficaci ed efficienti e di prodotti, attenti ai bisogni e alle persone, ma
anche a peculiarità territoriali e culturali.
E proprio negli agglomerati
cittadini che i megatrend che ci
aspettano si faranno sentire forti nei prossimi anni, di cui ricordo, ad esempio: concentrazioni abitative, gestione intelligente e sostenibile in relazione alle
reti energetiche, alla mobilità, agli edifici; efficienza energetica ed
emissioni zero; popolazione giovane (indiana, cinese, filippina e africana) in
Europa e, di contro, il 20% del totale mondiale di popolazione ultraottantenne;
interazioni fra individui, macchine ed organizzazioni, integrazione di cloud
pubblici e privati (Big Data), ambienti di simulazione (difesa, medicina,
educazione, mobilità, solo per citarne alcuni), modelli di business basati
sulla condivisione di risorse (ma anche di infrastrutture, macchinari, servizi),
connettività principalmente wireless, ulteriore sviluppo della banda in termini
di ampiezza e disponibilità da cui deriveranno nuove generazioni di
applicazioni e servizi, intelligenza artificiale, esigenze sociali di ridurre a
zero difetti, tecnologie emergenti (nano materiali, elettronica flessibile,
laser, materiali intelligenti),
nuove infrastrutture e nuove soluzioni tecnologiche, nuove terapie,
valore sociale della salute ed del benessere, metodi di prevenzione e di cura,
automazione industriale, tecniche di intelligenza artificiale, robot
intelligenti, produzione più rapida, efficiente e sostenibile, e quindi
scomparsa di alcuni lavori, riuso, seconda e terza vita dei beni, reti
multiple, integrate ed intelligenti e capacità di immagazzinare meglio e di più
l’energia (storage).
Si tratta di un cambiamento
culturale forte, che poggia sulle spalle della responsabilità sociale di ognuno,
per uscire da una logica di “protezione” degli asset (operativi, reputazionali,
etc.) ed entrare in un nuovo modello di vera creazione di valore.
Si tratta di un cambiamento forse
ineluttabile per le imprese che aspirano a mantenere una leadership nelle
pratiche di sostenibilità come strumento di competitività: un nuovo punto di
vista, un nuovo modo di osservare i bisogni, sociali ed economici,
e di interpretare il ruolo dell’impresa, rileggendo la propria identità
(ottimizzando tutti gli strumenti già a disposizione), per offrire risposte
condivise e sostenibili.
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